Le condizioni di vita nelle organizzazioni lavorative

I luoghi di lavoro, il lavorare sono sempre stati attraversati dal dolore, da forme diverse di patimento. Sofferenza fisica per ritmi, carichi, fatiche, pesi materiali, rumori, climi, ma anche sofferenza legata ai mancati riconoscimenti, ai conflitti, ai maltrattamenti, ai tradimenti, alle delusioni, alle incertezze e insicurezze. Mentre osserviamo che le sofferenze fisiche sono diminuite, parrebbero aumentate quelle emotive, psichiche, che rileviamo tra le persone al lavoro e nelle organizzazioni.

Esse paiono connesse frequentemente ad un senso di smarrimento, d’impotenza, a condizioni che paiono fuori controllo, in cui le persone si sentono confuse, con la percezione di qualcosa in cui forse si è fallito o che è fallito e che non lascia vie d’uscita. Sembra che non sia sensato fare alcunché se non badare a se stessi per cercare di non soccombere.
Forse i problemi, gli smarrimenti, le sensazioni che incontriamo e proviamo relativamente alla sofferenza, non riguardano il dolore o la sofferenza in sé, ma il senso che questi hanno per i soggetti. Soffrire con uno scopo è cosa molto diversa dalla fatica insensata, o apparentemente tale, o autodistruttiva.

La sofferenza come ogni fenomeno non ha un senso in sé: cosa le può restituire senso?

La possibilità di tradurre e sopportare la sofferenza, il sacrificio, la fatica sembra essere connessa a quanto i soggetti si sentono artefici dei cambiamenti.
La sofferenza non è necessariamente patologica. Possiamo considerarla come parte integrante della vita. In tal senso non è mortifera, non è una minaccia, è parte della vita stessa. La morte, la crisi, il fallimento, l’incertezza, sono parte della vita di ogni organizzazione lavorativa, come lo sono la fondazione, la crescita, il successo, la realizzazione dei progetti.
Sofferenza e piacere, vita e morte possono esser visti non come antitetici oggetti scissi, ma elementi di un unico processo, intrecciati, distinti, eppure confusi.
Il pensare è parte fondamentale della vita, della gioia umana, ma è anch’esso indissolubilmente sofferenza: per ciò che si vede, per il tipo di lavoro che il pensare richiede. Per poter pensare bisogna esser capaci di soffrire. Allo stesso modo il desiderare, il progettare espongono alla sofferenza.

È possibile trattare la sofferenza come elemento costitutivo della nostra vita più che come un disturbo, un’interferenza se non addirittura una sconfitta o una malattia?

La maggiore percezione di sofferenza non sembra legata dunque esclusivamente ad un aumento “quantitativo”: sembra essere cambiata o diminuita la capacità di comprenderla/gestirla, dare spazio, riconoscerla, accoglierla e renderla utile, sensata, ricollocarla in un movimento collettivo in grado di attribuirle un senso (che non sia necessariamente collegato ad elaborazioni proposte dalla religione e dalla Chiesa).


Come vengono trattate le sofferenze

A volte si cura la sofferenza per eliminarla: la si fugge non volendola incontrare negli altri e in sé, si “guarisce” dalla sofferenza. In questa direzione, nelle organizzazioni, si muovono gran parte degli investimenti in programmi per il benessere. Appare in un certo senso paradossale che si lamenti un’accresciuta sofferenza mentre più elevata è la produzione di leggi (italiane ed europee) e l’avvio di progetti sulla sicurezza e il benessere, sullo stress “lavoro-correlato”.
Anche progetti ed azioni formative paiono, in questi casi, orientati a preservare dalla fatica e dalla sofferenza del pensare. Sono connotate in misura consistente come svago, oppure come luoghi che preservano dal pensare facendo leva sul trasmettere tecniche, prescrizioni, ricette, soluzioni che, appunto, ti dicono cosa e come fare. Gli interventi formativi proposti e promossi sembrano così, spesso, diversivi per distogliere , attenuare dimensioni dolorose.

In momenti che richiedono transizioni difficili non è forse più utile interrogarsi per capire come cambiare sguardi e comportamenti che riscontriamo non più adatti?

Si può, però, curare la sofferenza per renderla sopportabile, consapevoli che non la possiamo eliminare. Possiamo prenderci cura delle parti che soffrono (sociali, organizzative, individuali) per comprendere e distinguere: quindi per decostruirne le rappresentazioni “scontate”, “naturali”. Per scegliere in che misura siano il segnale di problemi a cui metter mano e in che quota siano parte ineliminabile della vita lavorativa nello specifico contesto.

L’annichilimento dei desideri, delle passioni, l’assenza di progettualità e speranze non sono forse il sintomo di una sofferenza che inconsapevolmente non si riesce a reggere?

Le capacità di reggere, trattare le sofferenze è ineguale. Ineguale è spesso il carico di sofferenze. Ciò ci porterebbe a ipotizzare che la sofferenza non è tale in sé, ma si qualifica in un sistema di relazioni interne ed esterne. L’essere assieme, in gruppo, la rende più sopportabile o aiuta a trovarle una collocazione. La sofferenza da sola, senza collegamenti che le diano senso forse può essere solo anestetizzata, allontanata da sé.
Lo psicoanalista Christophe Dejours, in un articolo comparso sul quotidiano Le Monde, a proposito dei suicidi Télécom in Francia, afferma: “Il loro gesto disperato non può essere imputato a vulnerabilità psicologiche individuali. È l’organizzazione del lavoro che deve essere messa sotto accusa. …I lavoratori non hanno bisogno di una buona gestione dello stress o di cure psicologiche, hanno bisogno di un’organizzazione del lavoro che poggi sul mestiere e che rilanci la cooperazione solidale” (14 agosto 2009).

In che misura le sofferenze individuali derivano da condizioni organizzative? Quanto l’origine è esterna, sociale, importata da più ampie condizioni ambientali culturali ed economiche? Quanto le sofferenze sono inscritte nello specifico lavoro che si fa, nei problemi che si trattano, nei clienti con cui si è in relazione? Quanto hanno origini intrapsichiche o comunque soggettive?

La funzione dell’organizzazione come contenitore rispetto all’ansia dei singoli (cfr. Jaques) o come luogo di de-compressione di conflittualità, di mediazione dei conflitti sociali viene fortemente interrogata e messa alla prova.
Nate per governare e gestire le incertezze, le organizzazioni lavorative sono oggi attraversate da incertezze e cambiamenti spesso poco governati sia nelle relazioni che nelle strategie. Anche i vari ruoli organizzativi sembrano in difficoltà nel mediare tra esigenze produttive e attese soggettive. Sono spesso scarsamente riconosciuti, delegittimati, invisi. Chi ricopre ruoli di autorità è sempre più accusato di essere generatore di sofferenza, poiché sembra scegliere di non praticare un ruolo sufficientemente protettivo e salvifico rispetto a scelte che generano sofferenza. Da qui sofferenze connesse al sentirsi chiamati a presidiare, al vedersi responsabili in proprio del processo/obiettivo/decisione. In assenza di un contenitore organizzativo adeguato, il senso di responsabilità può raggiungere livelli individualmente non più sostenibili.
In un clima di sfiducia crescente sembrano peraltro aumentare richieste di dipendenza. Vi è una richiesta all’autorità di essere sollevati dall’esposizione alla partecipazione, all’investimento. In termini di immaginario oggi presente sembra prevalere la necessità di trovare qualcuno di “buono”, “forte” (forse “onnipotente”), un “semidio” da cui poter dipendere.

Le organizzazioni non solo proteggono meno le persone ma generano livelli di sofferenza più elevati? Sono luoghi che generano illusioni? In che modo la formazione è impiegata come leva per far fronte alla sofferenza?


A cosa servono le illusioni?

Sembra che abbiamo bisogno di illusioni per poter vivere e forse le organizzazioni hanno bisogno d’illusioni per tenere assieme le persone che le compongono, farle lavorare nonostante le sofferenze che caratterizzano quei sistemi. Le illusioni possono svolgere una funzione protettiva.
Illusioni, miti, idealizzazioni, fascinazioni, ideologie, sogni, religioni hanno una funzione chiave nella costruzione delle nostre rappresentazione della realtà, ci guidano nel leggere e interpretare ciò che ci accade, nel dare un senso all’esistenza.
Le illusioni sono diverse dalle speranze, ma le illusioni possono dare speranza. Sono comunque una distorsione della realtà. La modificano in alcuni suoi elementi, aggiungendo parti, collegamenti che non esistono, ma anche eliminandone altri. Appaiono come fenomeni con un doppio volto o funzione.
Da un lato le illusioni nelle loro diverse forme hanno l’importante funzione di dare un ordine alla caoticità del mondo, delle realtà sociali e intrapsichiche ma possono anche essere fonte di sofferenza. Esse possono illudere i soggetti, disegnando, rappresentando una, o la, possibilità di salvarci dal malessere. Svolgono così una certa qual funzione adattativa, ma possono esporci a dolori ancora maggiori oppure a mettere a rischio la sopravvivenza delle organizzazioni, della società e nostre personali (droghe, mito delle risorse illimitate, visioni scisse della realtà, …).

Sono rilevabili dimensioni maniacali nelle organizzazioni lavorative, come sistemi per generare un’illusoria felicità o benessere? E’ rintracciabile l’esistenza di riti che occultano, allontanano, isolano la sofferenza? In che misura e in che senso la formazione può alimentare illusioni?


I processi di cambiamento possibili: decostruire e ricostruire tra blocchi e speranze

Ci pare sia interessante mettere a fuoco i possibili cambiamenti che le organizzazioni e gli individui possono intraprendere e le piste per realizzarle.
Parrebbe che una quota di sofferenza significativa abbia a che fare con l’impossibilità di cambiare, influenzare le organizzazioni in cui si lavora. Al contrario in altre situazioni la sofferenza deriverebbe dalla fine dell’illusione di poter cambiare, illusione sostenuta da ideologie più o meno rivoluzionarie, idee di un futuro migliore, fantasie di risoluzione delle incertezze e dei problemi attraverso lo sviluppo della tecnica.

Quale strada per intraprendere il cambiamento in situazioni che appaiono bloccate?

Proponiamo l’ipotesi che per poter ricostruire qualche diverso punto di riferimento sia necessario decostruire l’esistente.
Decostruire (cfr. Derrida) non significa smontare quello che ci è stato consegnato dalla tradizione, quanto mostrare cosa c’è dietro a certi comportamenti, pensieri, gerarchie che stanno all’interno del nostro mondo (uomo/donna; europeo/non europeo; …). Ciò che sembra antitetico è complementare. Ciò che viene rimosso, tralasciato, messo in secondo piano è in realtà una condizione di possibilità. La decostruzione è il riuscire a mantenere la compresenza di due livelli: personale e filosofico, antico e moderno.
Decostruire significa creare spazi per poter pensare, spazi sociali, organizzativi, mentali che sono sempre più ridotti, compressi, saturi, occupati da rappresentazioni della realtà che non vengono in alcun modo rimesse al vaglio, interrogate, discusse.
In tal senso decostruire riattiva inevitabilmente dimensioni conflittuali con gli altri e in noi. Si tratta di decostruire pensieri prepensati, stereotipi, visioni formattate, modelli organizzativi che hanno alimentato e sostenuto illusioni, rappresentazioni magiche della realtà e dei cambiamenti. Decostruire significa riconoscere i miti che ci guidano e uscire dalla rete protettiva di queste idee che riducono la viability, prendere distanza da pensieri preformati e dominanti, ritrovare libertà di movimento.
Dobbiamo tenere presente però che molta sofferenza deriva dalla percezione, che non è sempre consapevolezza, che gli spazi sono per altri versi molto ampi, che i gradi di libertà si sono molto innalzati. Che i vincoli sono molti, complessi, confusi, ma anche deboli.
Siamo apparentemente più liberi da imposizioni ma all’interno di un orizzonte bloccato che impedisce di uscire da pensieri già pensati. E così la sofferenza deriva forse dal sentirsi incapaci di fare alcunché e per questo inadeguati e in colpa. La decostruzione, quindi il conflitto, in questo senso generano sofferenza ma possono aprire possibilità.
La decostruzione ha a che fare con il minacciare le difese individuali, organizzative e sociali, quindi con una ripresa di contatto con ansie/angosce, ma anche con possibilità che le difese occultano. A livello di singoli parrebbe tanto più praticabile quanto più si abbia di sé una rappresentazione sufficientemente solida. A livello di organizzazione sembrerebbe percorribile quanto più si attivino processi di accompagnamento (con iniziative di formazione e di consulenza mirate) rivolti a ri-conoscere e a ri-vedere.

Decostruire è possibile in tutte le organizzazioni e da parte di tutti gli individui? A quali condizioni? Può rappresentare una minaccia all’identità del soggetto?

Come ricostruire un immaginario sociale possibile? Come la formazione può essere d’aiuto in questa direzione?

Come aiutare le persone e le organizzazioni a percorrere questi transiti?


29 ottobre 2010
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9.30 – 9.45 Presentazione della Giornata di Studio a cura di Grazia Gacci.
9.45 – 11.30 RACCONTI E RIFLESSIONI SU ESPERIENZE LAVORATIVE
Relatori: Corrado Mandreoli, Franca Molteni, Giovanni Orlandini, Paola Sartori.
Tavolo coordinato da Marco Brunod.
11.30 – 12.00 Intervallo
12.00 – 13.00 Il pubblico interviene e allarga il quadro.
13.00 – 14.00 Intervallo
14.00 – 16.30 QUADRI TEORICI E RIFLESSIONE COLLEGANDOSI ALLE STORIE: TRE PUNTI DI VISTA, RAPPRESENTAZIONI DEI PROBLEMI
Introduzione a cura di Grazia Gacci.

  • Lettura storico-sociologica: Marco Revelli
  • Lettura psicoanalitica: Laura Ambrosiano
  • Lettura psicosociologica: Achille Orsenigo
16.30 – 17.00 Intervallo
17.00 – 18.00 Discussione col pubblico e chiusura a cura dello Studio APS.

 


Relatori
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Laura Ambrosiano Psicologa e psicoanalista – Società Psicoanalitica Italiana e International Psychoanalytic Association
Corrado Mandreoli Ufficio Politiche Sociali – CGIL – Milano
Franca Molteni Direttore DSM – Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo di Busto Arsizio
Giovanni Orlandini Amministratore Delegato – Car Server S.p.A. – Reggio Emilia
Marco Revelli Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
Paola Sartori Servizio Politiche cittadine per l’infanzia e l’adolescenza – Comune di Venezia